La lavorazione del vetro è attestata in Egitto sin dal IV millennio a.C. Gli egizi scoprirono che, mescolando sabbia ricca di notevoli quantità di quarzo e acido silicico puro in forma cristallina con il sodio (che ricavavano dalle ceneri delle alghe) e gli alcali calcarei, e scaldando il tutto alla temperatura di ottocento gradi, era possibile ottenere una pasta di vetro (faïance). Questa pasta, viscosa e di rapido indurimento, si lasciava formare in perline, in bottigliette (sopra un nucleo d’argilla) o anche in recipienti elegantemente modellati. Il vetro fuso poteva essere anche colato in uno stampo a parallelepipedo, e, una volta raffreddato, poteva essere molato come un blocco di pietra, oppure modellato nella forma desiderata con il sistema della cera persa. Nella seconda metà del II millennio era già usata la tecnica del mosaico, mentre in epoca tarda divennero famosi i cosiddetti "vetri millefiori". Questi erano ottenuti da barrette o canne di vetro di diverso colore, disposte a forma di fiore, assottigliate e tagliate a tessera, e che, una volta riscaldate in uno stampo per farle saldare tra loro, venivano levigate a freddo. I fenici, appreso dagli egizi il processo di fabbricazione del vetro, lo sfruttarono a fini industriali, supportati dalla loro formidabile rete commerciale. Il vetro dei fenici era più prezioso di quello egiziano perché, dopo una serie di lunghi tentativi, essi riuscirono a migliorarlo in maniera inaspettata: a Tiro, ma soprattutto a Sidone, sorsero officine dai cui forni uscì il primo vetro trasparente della storia, che, probabilmente, i fenici riuscirono anche a soffiare.